giovedì 19 gennaio 2012

DISEASE MONGERING: UNA MALATTIA PER OGNI PILLOLA!

Mentre un tempo si inventavano medicinali contro le malattie, ora si inventano malattie per generare nuovi mercati di potenziali pazienti.
Trent’anni fa Henry Gadsen, direttore della casa farmaceutica Merck, dichiarò alla rivista Fortune: “Il nostro sogno è produrre farmaci per le persone sane. Questo ci permetterebbe di vendere a chiunque”. A distanza di tre decenni il suo sogno sembra essersi avverato: le strategie di marketing delle maggiori case farmaceutiche hanno infatti oggi come target non i malati ma le persone sane. Questo processo, già evidenziato più di vent’anni fa da Ivan Illich in Nemesi Medica, sembra mirare a trasformare in un futuro prossimo tutte le persone in buona salute in altrettanti – più o meno potenziali – malati.
Ma è possibile creare “ad arte” una malattia? La storia recente ci insegna di sì, per esempio agendo sui parametri che stabiliscono il confine tra normalità e malattia (è il caso del diabete o dei livelli di colesterolo nel sangue), oppure etichettando come “patologie” condizioni e atteggiamenti che connotano piuttosto tratti di personalità (ansia, timidezza, noia), particolari fasi della vita (menopausa, vecchiaia) o semplici caratteristiche fisiche (calvizie, cellulite). quest’ottica si inserisce il fenomeno del “disease mongering”, letteralmente “commercializzazione di malattie”, la frontiera del marketing farmaceutico nell’era contemporanea[1].

Mentre un tempo si inventavano medicinali contro le malattie, ora si inventano malattie per generare nuovi mercati di potenziali pazienti.

L’economista svizzero Gianfranco Domenighetti sottolinea come il disease mongering operi attraverso strategie che agiscono su tre piani: quantitativo, temporale e qualitativo.

Sul piano quantitativo, l’azione è sui parametri che definiscono la frontiera del “patologico” per numerose condizioni medico sanitarie, quali per esempio ipertensione, ipercolesterolemia o diabete . É evidente che più si ampliano i confini che definiscono una malattia, più si espande il bacino dei potenziali pazienti e, con esso, il relativo mercato dei produttori di farmaci. Le decisioni in merito a tali confini, spesso prese da “esperti” con legami finanziari con l’industria farmaceutica e sulla base di studi da essa sponsorizzati, hanno l’effetto di trasformare da un giorno all’altro milioni di individui “soggettivamente sani” in persone “oggettivamente ammalate”. Quando, nel 2004, una commissione di esperti negli Stati Uniti ha riformulato la definizione di ipercolesterolemia, riducendo i livelli ematici ritenuti necessari per autorizzare una cura medica, il numero di persone potenzialmente suscettibili di terapia farmacologica è triplicato. É doveroso sottolineare che ben otto dei nove membri della commissione lavoravano a quel tempo anche come relatori, consulenti o ricercatori proprio per le case farmaceutiche coinvolte nella produzione di farmaci ipocolesterolemizzanti[2]. Non si tratta purtroppo di un caso isolato: uno studio pubblicato su JAMA nel 2002 ha calcolato che l’87% di coloro che redigono linee guida cliniche ha conflitti d’interesse a causa di legami con l’industria farmaceutica , e che di questi il 59% ha rapporti proprio con i produttori dei farmaci relativi alle patologie per cui è chiamato a stilare le linee guida[3].
La seconda dinamica chiamata in causa da Domenighetti opera sul piano temporale , e consiste nella promozione e nella diffusione di pratiche di screening la cui efficacia è incerta oppure non ancora dimostrata (ad esempio l’utilizzo del marker tumorale Ca 19.9 per l’identificazione precoce del cancro al pancreas). A questo proposito, Domenighetti scrive: “ Se l’abbassamento dei parametri che definiscono i confini del patologico costituisce una medicalizzazione praticamente forzata ed in parte occulta di intere fasce di popolazione, la promozione ed il successo degli screening in particolare quelli di massa dipende in grande misura dalla capacità dei promotori di convincere la popolazione a sottoporsi a questo o quel dépistage. L’operazione ha già avuto pieno successo. Infatti gli ideologi degli screening hanno fatto passare nella società civile l’irresistibile logica secondo la quale è sempre meglio diagnosticare qualsiasi patologia il più presto possibile ”[4]. Da qui l’importanza di fornire “ex ante” alla popolazione tutte le informazioni su vantaggi, rischi e incertezze delle indagini di screening, per evitare che si verifichi un’indebita induzione dei consensi da parte di chi ha interesse a ottenere alti tassi di partecipazione a queste pratiche (ovvero i produttori/venditori di kit diagnostici o strumentazioni biomediche). Numerose ricerche dimostrano infatti l’impatto che un’informazione adeguata può avere sulle scelte dei pazienti. Uno studio condotto dallo stesso Domenighetti mostra per esempio come il 60% della popolazione campione sia risultato disponibile a sottoporsi a uno screening per l’identificazione precoce, tramite il dosaggio del marker tumorale CA 19.9 , del cancro al pancreas. Quando però sono state fornite informazioni complete relative alla scarsa sensibilità del test (70% di falsi positivi), all’incidenza annuale della malattia (11 casi su 100.000 persone) e alla sua incurabilità (sopravvivenza a 5 anni: 3%), tale disponibilità è scesa al 13,5%[5].
Una terza e ultima dinamica, che agisce sul piano qualitativo , è rappresentata dalla trasformazione in condizioni medico-sanitarie di situazioni che dovrebbero far parte della normalità della condizione umana . Le persone vengono persuase che problemi che prima accettavano come un semplice inconveniente, o comunque come “parte della vita”, debbano ora destare preoccupazione e siano degni di un intervento a livello medico. Il fenomeno è tanto diffuso che la prestigiosa rivista BMJ ha pubblicato, nel 2002, una “Classificazione internazionale delle non -malattie”, contenente più di 200 condizioni ritenute a torto come patologiche. Tra queste figurano la calvizie, la timidezza (ribattezzata come “disturbo d’ansia sociale”), la cellulite[6].
Le strategie di allargamento del mercato farmaceutico qui delineate si servono naturalmente di pubblicità a tappeto e di abili “campagne di sensibilizzazione”. Vince Parry, professionista del marketing , ha rivelato in un articolo intitolato “L’arte di inventare malattie” di collaborare con le case farmaceutiche per “ creare nuove idee su disturbi e malattie e un nuovo modo di pensare alle cose per massimizzare le vendite dei farmaci ”[7]. Con sconcertante franchezza, Parry ha affermato che le case farmaceutiche oggi promuovono non solo i propri farmaci, ma anche i disturbi necessari a creare il mercato per i propri prodotti . In molti casi la formula è la medesima, e un articolo pubblicato su Lancet ha riassunto in tre le tappe da seguire nella campagna promozionale di un nuovo prodotto: richiamare l’attenzione della popolazione bersaglio su una patologia, evidenziando le carenze dei trattamenti finora disponibili; informare la popolazione, già sensibilizzata, che esiste un nuovo medicinale, illustrandone gli straordinari vantaggi; indurre i medici a prescrivere il nuovo farmaco, e la popolazione a richiederlo[8].

Come illustrato, la medicalizzazione della società nel mondo contemporaneo è sempre più spinta da sofisticati e diffusi meccanismi di promozione industriale. Mentre un tempo si inventavano medicinali contro le malattie, ora si inventano malattie per generare nuovi mercati di potenziali pazienti. Il messaggio complementare che viene divulgato è che c’è una pillola per ogni malattia (comprendendo in questo concetto la patologia in sé, il rischio di ammalarsi e il sentirsi ammalato), ma anche una malattia per ogni pillola.

Il disease mongering è una pratica insidiosa, spesso invisibile, che richiede seri provvedimenti in quanto comporta il rischio di scelte terapeutiche inopportune, malattie iatrogene e sprechi che minacciano la sostenibilità economica dei nostri sistemi sanitari e sottraggono risorse utili alla cura e prevenzione di patologie ben più gravi e reali. A un livello più profondo, il disease mongering contribuisce a modificare il modo in cui vengono percepite la salute e la malattia, promuovendo la medicalizzazione della vita e focalizzando l’attenzione esclusivamente su soluzioni farmacologiche (o tecnologiche in senso lato) che – dall’esterno – rimuovano i problemi, anziché favorire una comprensione più ampia delle dinamiche che ruotano intorno alla salute, nelle loro necessarie implicazioni biologiche, psicologiche e sociali.

Bibliografia

Moynihan R, Cassels A. Farmaci che ammalano e case farmaceutiche che ci trasformano in pazienti. Nuovi Mondi Media, 2005.
Lenzer J. US consumer body calls for review of cholesterol guidelines. BMJ 2004; 329:759.
Choudhry N. Relationship between authors of clinical practice guidelines and the pharmaceutical industry. JAMA 2002; 287: 612-617.
Domenighetti G. Dall’induzione alla creazione della domanda: quali implicazioni per i servizi sanitari nazionali. Panorama della sanità 2003; 41: 12-15.
Domenighetti G, Grilli R, Maggi JR. Does provision of an evidence based information change public willingness to accept screening test? Health Expectations 2000; 3: 145-150.
Smith R. In search of non disease. BMJ 2002; 324: 883-885.
Parry V. The art of branding a condition. Medical Marketing & Media, London, 2003: 43-49.
Collier J, Iheanacho I. The pharmaceutical industry as an informant. Lancet 2002; 360: 1405-9

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